Alle ore 10.00 dell’8 aprile 2021, la KTM ha messo in vendita un’edizione limitata e numerata del suo modello di punta: la Super Duke 1290 RR. Cinquecento esemplari andati esauriti in 48 minuti. Prezzo di vendita: 25.690 euro.
Chi l’ha acquistata con tale celerità non aveva certo garage o portafoglio vuoto. Parliamo di un pezzo da collezione, una moto pregiata e sofisticata, con carenatura in fibra di carbonio e un rapporto peso potenza di 1:1, ovvero 180Kg per 180cv. Un missile terra-terra, bilanciato al milligrammo. Probabilmente, ad oggi, lo stato dell’arte dell’ingegneria meccanica ed elettronica raggiunta della casa austriaca, che sintetizza in un solo mezzo la crescita qualitativa che ha fatto negli ultimi 20 anni.
Anche se la prima Super Duke è stata presentata ufficialmente nel 2014 infatti, quella odierna è l’evoluzione di un progetto iniziato negli anni 2000, dall’ingegnere Herman Sporn. Partendo dal noto bicilindrico a V, nome in codice LC8, sviluppato per la 950 Adventure, progettò da zero una naked stradale ad alte prestazioni.
Una sfida non facile, dato che all’epoca KTM era un costruttore impegnato nelle competizioni off-road, e occupava un posto marginale nell’agguerrito mercato consumer europeo, e nel settore delle moto da strada.
Il suo claim però, “Ready to Race”, era un avvertimento. Nel 2003, per i 50 anni dell’azienda, il CEO Stefan Pierer dichiarò che la KTM sarebbe diventata il più grande produttore europeo di moto da lì a dieci anni. Aveva ragione.
La formula di questo successo è data da innumerevoli fattori. Un know-how ingegneristico di altissimo livello, e partnership aziendali con produttori indiani e cinesi, che hanno permesso alla casa austriaca di superare le crisi del settore e coprire fasce di mercato sempre più ampie e trasversali. Ma soprattutto, è merito anche di un connubio più unico che raro nel settore delle moto.
Non è un segreto infatti che dai primi anni Novanta KTM collabora con lo studio di brand design KISKA, che ha impresso uno stile unico alle moto di Mattighofen, ma non solo. Ha definito tutta la comunicazione aziendale. Dalla scelta del colore arancione alla progettazione degli spazi espositivi nelle ferie e nei concessionari, sino al racconto quotidiano della filosofia e dell’universo KTM.
Un mondo, come lo stesso KISKA definisce, fatto di un sapiente mix di serietà e caos, dovuto forse alla particolare posizione geografica dell’Austria, stretta tra la razionale Germania e l’irrazionale Italia. I due popoli, secondo il designer, nei secoli hanno trovato nel territorio austriaco un punto di contatto che ha creato un milieu unico, da cui poi è nata un’azienda dallo spirito come KTM.
Ironiche speculazioni a parte, questa crescita è stata un cammino lungo e irto di insidie tanto quanto una gara di Hard-Enduro. La sua reputazione si è costruita, passo dopo passo, tra il fango e i dossi delle piste e le pulite e lisce scrivanie dei vertici aziendali.
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Un po’ di storia: gli albori
Come gran parte delle aziende europee del settore, la KTM nasce come officina di vendita e riparazione veicoli. Viene aperta nel 1934 dall’ingegnere Hans Trunkenpolz a Mattighofen, un minuscolo comune dell’Alta Austria. Da qui il primo acronimo: Kraftfahrzeug (che sta per veicoli), Trunkenpolz, Mattighofen.
Nel 1953 gli strascichi della Seconda Guerra Mondiale stringono la popolazione nella povertà e la ripresa economica sta appena carburando. Le moto sono i mezzi più diffusi, perché costano poco e rispondono bene alle esigenze di mobilità dell’epoca. Hans Trunkenpolz fiuta l’affare, entra in società con l’imprenditore Ernst Kronreif, e inizia a produrre le sue prime motociclette. L’acronimo del marchio diventa così Kronreif & Trunkenpolz Mattighofen.
Nel 1955 a listino ci sono già quattro modelli (R100, R125 Tourist e Grand Tourist, e uno scooter). Con alcuni, i due partecipano a diverse competizione off-road. Non per vocazione, quanto perché nella zona di Salisburgo sono praticamente le uniche esistenti.
Nel 1956, col pilota Egon Dornauer, vincono l’edizione austriaca dell’International Six Days Trial, la più antica competizione off-road riconosciuta dalla Federazione Internazionale Motociclismo. Nota anche come l’olimpiade delle moto, si corre ogni anno in una nazione differente. E fino al 1980, vedeva competere squadre nazionali su moto costruite nella rispettiva nazione.
Sulla scia dei successi, nel 1957 Hans ed Ernst affidano all’ingegnere Ludwig Apfelbeck la progettazione di un mezzo da competizione: la KTM RS.
Apfelbeck, nella realizzazione, anziché usare i soliti motori Rotax o Sachs, partì da un propulsore dell’italiana MV Agusta. All’epoca infatti costruirsi un motore o un telaio in casa non era alla portata di tutti. L’italiana MV Agusta poteva farlo perché nasceva come azienda costruttrice di aeroplani e, successivamente, di auto e camion. Per gli altri, era più semplice modificare, adattare e assemblare elementi già costruiti da maestranze specializzate.
Curiosità: Apfelbeck è stato anche l’ingegnere che ha costruito il primo motore marchiato KTM. Si trattava di un 50cc destinato a uso urbano per il piccolo scooter Mecky. La casa austriaca ha avuto a listino, fino al 1988, una sua gamma scooter.
Da Farioli a Penton
Nel 1959, dopo la morte di Ernst Kronreif, la KTM fu travolta da una delle prime crisi del settore. A cavallo dei Cinquanta e Sessanta infatti, arrivarono sul mercato le prime auto economiche e di piccole dimensioni, come la Fiat 500 o la Glas Goggomobil. Le due ruote divennero così il mezzo dei “poveri” o dei “senza patente”.
Le vendite crollarono e i produttori dovettero reinventare il concetto di moto: non più un’alternativa economica all’auto, ma mezzo di svago, piacere e divertimento. Uno status symbol, poi divenuto sinonimo di ribellione, anticonformismo e libertà, grazie a film e libri come Easy Rider (Dennis Hopper, 1969) e Lo Zen e l’arte della manutenzione della motocicletta (Robert M. Pirsig, 1974). Ma questa è un’altra storia.
Per superare la crisi, la KTM, che in quegli anni fu rilevata dalla Puch, concentrò la produzione sui 50cc, ideali per i giovani senza patente. Nacque così il Ponny Moped, uno scooter che si rivelò un fiasco commerciale. E la Comet, una piccola motocicletta che, grazie a personaggi come Arnaldo Farioli e John Penton, fece la fortuna dell’azienda austriaca.
Farioli era importatore del marchio KTM in Italia, nonché pilota che gareggiava in Europa con una Comet, su cui però aveva sostituito il 50cc di fabbrica con un motore Sachs 100cc, ottenendo ottimi risultati.
Anche Penton era un pilota di motocross ed enduro, nonché importatore americano dei marchi BMW e Husqvarna. Fu uno dei primi a intuire il potenziale economico che le moto da off-road potevano avere tra i giovani. Perciò chiese alla Husqvarna di produrre un mezzo agile e veloce, adatto anche a piloti amatoriali, che lui avrebbe rivenduto in America sotto il marchio Penton.
L’affare non andò in porto, allora si rivolse alla KTM, che sviluppò un prototipo partendo proprio dalla Comet modificata da Farioli. Nacquero così la Penton Berkshire (100cc) e la Penton Six Day (125cc), entrambe equipaggiate con motore Sachs.
I due modelli furono commercializzati per le competizioni anche in Europa, sotto il nome di GS 100 e GS 125, suscitando molta attenzione anche tra i piloti amatoriali. KTM decise poi di crearne una versione “replica” stradale, che rilanciò il marchio nel mercato consumer e fece crescere le finanze aziendali.
Clima da guerra fredda
La Comet/Penton riscosse molto successo nelle corse nazionali, ma per via della sua cilindrata limitata non poteva partecipare ai campionati mondiali dove, all’epoca, la cilindrata d’accesso era 250cc.
Gli austriaci erano però decisi a sfidare e battere i principali competitor: le europee Husqvarna e Triumph; i produttori del blocco sovietico (la Germania dell’Est con le MZ e Repubblica Socialista Ceca con le CZ); e naturalmente i giapponesi.
Così, nel 1971, realizzarono il loro primo motore da competizione: un monocilindrico due tempi con una cilindrata variabile dai 175cc al 420cc, montato sui modelli GS80 e MC80, così da coprire tutte le classi e discipline.
Ciò che mancava erano dei piloti d’esperienza in grado di portare le moto al successo, e questi furono reclutati dalla Russia Sovietica, destando non poche perplessità e tensioni internazionali.
Negli anni Settanta infatti, in piena Guerra Fredda, la vittoria di un atleta, o una squadra, appartenente a uno dei due blocchi, su una squadra o atleta del blocco rivale, era considerata una vittoria politica, per questo non era accettabile che un atleta sovietico facesse parte di una squadra occidentale. Sarebbe stato alto tradimento. Ma lo sport è fatto anche di storie come queste.
Nel 1973, ad Avignone, alla gara valida per il campionato mondiale motocross, i piloti russi Pavel Rulev e Guennady Moisseev, restano a piedi. Qualcuno, nella notte, si è introdotto nel paddock e ha rubato il camion in cui erano custodite le loro motociclette. I sovietici rischiano così l’esclusione dal campionato. Ma la KTM, con gesto sportivo, concede loro due moto, permettendogli di prender parte alla competizione.
Quell’anno, per la classe 250, vince lo svedese Hakan Andersson su Yamaha. I russi, sulle moto austriache, si piazzano rispettivamente quinto e ottavo, ben più in alto dei connazionali sulle moto cecoslovacche. Questo bastò a convincere i vertici di partito della Repubblica Socialista Russa a concedere il nulla osta per firmare il contratto, anziché mandare i due al confino in Siberia.
Nel 1974 Moisseev e Rulev sono i piloti ufficiali KTM e Moisseev, quello stesso anno, vince il titolo mondiale. Replicherà nel 1977 e nel 1978, inaugurando l’albo d’oro della KTM, che nei successivi quarant’anni si è ritagliata un posto di prim’ordine nelle competizioni off-road, collezionando oltre 260 titoli, tra locali, nazionali e mondiali.
Ascesa e declino dell’impero
In tutte le storie c’è sempre un giro di boa. Un momento in cui la direzione degli eventi prende una piega diversa, forse inaspettata, e mostra tutta la fragilità delle nostre aspettative.
Sul finire degli anni Settanta la KTM era diventata il primo colosso europeo nel campo delle due ruote. Contava oltre 700 dipendenti e un fatturato che sfiorava i 750 milioni di dollari.
Sulla scia del successo Penton, in Ohio, nel 1978, aprì la filiale KTM North America. Tre anni dopo, nel 1981, fu progettato il primo motore raffreddato a liquido, che portò gli austriaci a diventare leader mondiali nella produzione di radiatori, tanto da aprire una succursale dedicata: la KTM Kühler. Oggi ancora attiva e nota come WP-Radiator.
Nel 1985 dagli stabilimenti di Mattighofen uscì il motore numero 100.000. E nel 1987 nacque il propulsore LC4, un monocilindrico 4 tempi raffreddato a liquido, oggi un’icona della casa austriaca anche al di fuori delle competizioni. È attorno a questo motore che si è costruita la rinascita del marchio, dopo il repentino tracollo di fine anni Ottanta.
In tutte le storie infatti, come detto, c’è sempre un giro di boa. Un momento in cui si raggiunge la vetta, e dall’alto si scorgono le nubi nere che, da oriente, minacciano mal tempo.
Le quattro sorelle giapponesi (Honda, Yamaha, Suzuki e Kawasaki), stavano conquistando il mercato europeo con prodotti all’avanguardia, affidabili ed economici. Ciò spinse i produttori locali a una marginalità di vendite e una rincorsa faticante e poco profittevole.
È forse per questo che la GIT Trust Holding, del politico austriaco Josef Taus e dell’imprenditore Manfred Leeb, che prese le redini della KTM dopo la morte, avvenuta il 29 dicembre del 1989, di Erich Trunkenpolz, figlio del fondatore Hans Trunkenpolz, bloccò la produzione di moto e scooter e mandò avanti solo quella di radiatori e di biciclette. Una scelta poco avveduta, ma non così controtendenza, dato che in quegli anni anche altre storiche aziende, come Husqvarna, si stavano liberando della “zavorra” motociclistica.
Nel giro di due anni però la KTM finì in bancarotta e la GIT Trust Holding chiese la liquidazione della società.
Nel 1992, in un disperato tentativo di salvataggio, l’azienda fu divisa in tre distinte società: KTM Fahrrad GmbH, per la produzione di biciclette; KTM Kühler GmbH, per la produzione di radiatori; e KTM Sportmotorcycle Gmbh, per la produzione di moto.
La rinascita della fenice
La direzione della KTM Sportmotorcycle Gmbh venne affidata a Stefan Pierer, che ancora oggi è il CEO dell’azienda. Sotto la sua guida, la casa austriaca è passata da produrre appena seimila veicoli l’anno, per lo più specialistici, a produrne oltre 230 mila, coprendo quasi tutte le fasce di mercato e diventando uno dei leader mondiali del settore.
La direzione di Pierer è stata tanto meticolosa quanto audace. Negli ultimi trent’anni la KTM ha portato avanti progetti rischiosi, che l’hanno mandata sull’orlo della rovina (RC8, X Bow, Quad). Ma al contempo ha stretto legami solidi, che le hanno permesso di superare indenne le crisi del mercato e di ritagliarsi un ruolo sempre più da gigante del settore.
Atelier svedesi
Pierer scelse di partire dalle competizioni professionali, campo in cui la casa austriaca vantava un importante know-how. Il motore LC4 fu la base della rinascita sportiva dell’azienda, portando alla vittoria piloti come Mario Rinaldi, Giovanni Sala e Fabio Farioli nelle varie classi del campionato mondiale enduro, e ottenendo buoni piazzamenti nel Rally Dakar – anche se in questa disciplina la vittoria vera e propria arrivò soltanto nel 2001, col pilota Fabrizio Meoni in sella alla storica KTM LC4 660 R, apripista di una serie di successi che porteranno l’azienda a dominare ininterrottamente la competizione dal 2001 al 2019.
Nel 1995 KTM acquisisce Husaberg. Circa dieci anni prima infatti, il colosso svedese Husqvarna Vapenfabriks Aktiebolag cedette la divisione moto, Husqvarna Motorcycles GmbH, al gruppo italiano Cagiva Motor S.p.A..
Alcuni ingegneri svedesi, tra cui Thomas Gustavsson, rifiutarono il trasferimento in Italia e lasciarono l’azienda per fondarne una loro: la Husaberg appunto. Una minuscola casa motociclistica che produsse, all’interno di una stalla dismessa, in maniera artigianale, la FE 501, una moto da cross con motore quattro tempi. Una cosa abbastanza fuori tendenza, visto che in quegli anni andavano forte i due tempi: più leggeri, immediati e affidabili per il fuoristrada. Ma la squadra di Gustavsson sapeva il fatto suo e la moto, tra il 1989 e il 1998, corse e vinse nelle classi 350, 400, 500 e 600 del mondiale.
La Husaberg ha operato sotto l’ala KTM sino al 2013, anno in cui la casa austriaca, dopo aver acquistato il marchio Husqvarna, che nel frattempo era passato alla BMW, riunì i due brand. L’acquisizione accrebbe il già forte know-how che la KTM aveva nel settore, tanto da trasformarla nella specialista di quello che oggi è riconosciuto come l’hard-enduro ma che, all’epoca, aveva un nome più esotico: Erzberg Rodeo.
Scalare una cava
L’Erzberg Rodeo nasce nel 1994 da un’idea dei piloti e giornalisti Andreas Werth e Karl Katoch. I due volevano realizzare una competizione off-road in grado di appassionare il pubblico allo stesso modo delle corse su pista. Immaginano una corsa estrema, da disputare in un ambiente estremo, dove a vincere è il pilota più estremo in sella alla moto più estrema.
Il concetto della corsa è modellato su quello della cronoscalata, come la famosa Pikes Peak americana. Solo che non avviene sulle strade provinciali che risalgono le pendici un monte. Ma all’interno delle cave di ferro dell’Erzberg, una montagna che fa parte delle Alpi della Stiria, vicino alla città di Eisenerz, in Austria.
Una folle arrampicata fuoristrada, che parte dal bacino di raccolta in basso per inerpicarsi sino alla cima della cava. Tra irte salite fatte di ghiaie e fango, distese di rocce massi, depressioni e avvallamenti. Quanto di più ostico ci possa essere per mettere a dura prova pilota e mezzo.
Alla prima edizione presero parte un centinaio di piloti, che dissero di essersi radunati lì per “allenarsi”, dato che le autorità non avevano autorizzato la gara. A vincere fu il sudafricano Alfie Cox, in sella a una KTM. L’anno dopo l’evento si replicò, l’anno dopo ancora e così via, attirando sempre più piloti e spettatori. fi
Nacque così una nuova disciplina: l’hard enduro, di cui la KTM divenne ben presto leader indiscussa. I suoi piloti hanno vinto oltre 15 delle 25 edizioni dell’Erzberg Rodeo disputate finora.
Dal 2018 l’Hard Enduro è una disciplina con un proprio campionato: il WESS (Wolrd Enduro Super Series), con diverse tappe in tutta Europa. Dal 2021 entrerà a far parte della FIM, ma manterrà una sua caratteristica fondamentale: può partecipare chiunque, piloti professionisti e amatoriali.
La gara di Erzberg, oggi nota come Red Bull Hare Scramble, è divisa in due fasi. Nella prima, chiamata ancora Erzberg Rodeo, oltre 1000 piloti si cimentano nella scalata della cava, lungo 3 tappe di difficoltà crescente. I migliori 500 accedono, la domenica, all’hare scramble, che si sviluppa su un percorso di oltre 30km da concludere in 4 ore. È stimato che solo il 5% arriva alla fine.
Nel 2019 la giornalista Irene Saderini ha partecipato come crossista amatoriale e raccontato l’evento in una puntata della trasmissione Drive me crazy.
Il duka d’Austria
Sul lato commerciale, Pierer decise di fare una cosa un po’ inusuale, o quanto meno rara per il settore: “appaltarlo” a una ditta esterna. Lo studio di brand design KISKA.
All’epoca Gerard Kiska era un progettista appena trentenne. Insieme ad alcuni amici e colleghi, aveva aperto il suo studio e andava in giro a procacciarsi lavori. Tra i primi, c’era stata la partecipazione a un bando indetto proprio dalla vecchia dirigenza KTM. Veniva chiesto di ideare un modello di moto sulla base del nuovo motore LC4.
Gerard non aveva esperienza nel settore, se non qualche anno di collaborazione con la Porsche e una personale passione per le motociclette. Possedeva una tranquilla Yamaha RD 350, mezzo molto lontano dalla filosofia KTM. Tant’è che, come lui stesso racconta, Stefen Pierer una volta lo spedì in Spagna, nel ranch del pilota austriaco Heinz Kinigadner, per far pratica. Al ritorno Gerard si sentiva dieci anni più vecchio, ma consapevole di come funzionasse una moto da cross.
Il progetto presentato dallo studio KISKA vinse il bando. Quella moto però non vide mai la luce, perché di lì a poco la KTM, come detto, sarebbe finita sull’orlo del baratro.
Nella rinata gestione, Pierer decise di mantenere il rapporto con lo studio, e affidò a loro un incarico simile. Realizzare una moto stradale (sempre su base motore LC4), in grado di sintetizzare la filosofia che KTM stava costruendo nel mondo delle corse: essenzialità, mascolinità e divertimento.
Nel 1994 viene dunque presentata la prima DUKE.
Si trattava, in sostanza, di un supermotard: una moto da cross con ruote stradali. Ciò che colpisce di quella moto però non (solo) il contenuto tecnico in sé, quanto alcuni dettagli che tracciano il futuro di KTM. Colore e Design.
Nome in codice: Orange 021C
Fino agli anni Sessanta, il colore di una scuderia era legato alla nazionalità del mezzo: il rosso corsa era delle italiane Ferrari e Alfa Romeo; l’argento delle tedesche Mercedes e Audi; il verde delle britanniche Aston Martin, Cooper, Lotus; e il blu delle francesi Bugatti e Alpine.
Quando la FIA diede il via libera alle sponsorizzazioni esterne per permettere ai costruttori di finanziare la partecipazioni alle competizioni, i colori nazionali furono sostituiti dalle livree del marchio che sponsorizzava la scuderia. All’inizio dominavano alcol e tabacchi, come Martini, West, Marlboro, Lucky Strike, Camel. Poi sostituiti dai brand di moda, petroliferi o di bibite, come Benetton, Repsol, Castrol, Petronas, Red Bull e Monster Energy.
In campo motociclistico, la questione dei colori ha seguito traiettorie diverse. Ad esempio, le Ducati inizialmente erano argentate, e solo con l’acquisto da parte della Cagiva hanno adottato il rosso corsa che ora le contraddistingue. Ma più in generale, il colore, nel motociclismo sportivo, aveva un compito pratico: distinguere le classi di cilindrata che gareggiavano in pista.
Per farlo, specie nel fuoristrada, si tendeva a colorare le uniche parte della moto graficamente agibili: serbatoio, sella e parafango. Quegli spazi però erano anche gli unici dove poter inserire le sponsorizzazioni. Per questo si iniziò presto ad adottare i cartellini porta numero nelle diverse varianti cromatiche, ognuna associata a una classe di concorrenza.
Nelle competizioni off-road inoltre c’era un altro particolare non trascurabile. Il fango rendeva complesso se non impossibile distinguere una motocicletta dall’altra, inficiando, tra le altre cose, il coinvolgimento del pubblico.
I primi a ovviare questo problema, associando un colore unico alle proprie moto, furono i giapponesi. Le Suzuki gialle, le Kawasaki verdi, le Honda rosse e le Yamaha blu.
La scelta alla base di questi colori si muove tra storia e leggenda. Quella sul green-lime Kawasaki affonda le sue radici in America. Nel 1969, un importatore dell’allora poco noto marchio giapponese, fornì le moto a un team privato che partecipava alla 200 miglia di Daytona. La corsa aveva un forte impatto sulle vendite, perciò l’importatore chiese al team di rendere i mezzi ben visibile. Così, chiesero a un customizzatore californiano di renderle uniche, il quale scelse di farle tutte verde limone. Un colore, per l’epoca, poco “virile” per il mondo del motorsport, ma che si rivelò vincente e da allora fu associato alle Kawasaki.
La KTM ha fatto più o meno lo stesso. Scegliendo l’arancione, per l’esattezza il pantone Orange 021C, adottò un colore poco diffuso, in quegli anni, nel motorsport.
Si trattava di un colore eccentrico, in grado, come sostenuto da Kiska, di sintetizzare l’atteggiamento indipendente della casa austriaca. La sua necessità di trovare una strada propria, differente da quelle già trafficate dei competitor.
Ma la casa austriaca nel campo delle competizioni non era un parvenu come nel ’69 la Kawasaki. Non aveva bisogno di farsi notare. Semmai, aveva bisogno di spiccare fuori dalle corse, cioè nelle concessionarie.
L’arancione è così divenuto il trait-d ’union tra il mondo delle corse e quello delle vendite. L’elemento che distingue in strada lo spirito che l’azienda mette in pista.
Di quel colore è stata fatta la prima Duke del 1994 e, a partire dal 1996, il logo aziendale. Di quel colore sono stati fatti tutti i prototipi presentati dalla casa durante le fiere di settore. Arancione è il colore dei box KTM durante le competizioni; e arancioni sono gli spazio espositivi di fiere e concessionari, le brochure, i gadget. Tutto ciò che riguarda KTM è arancione. In un certo senso, con le dovute proporzioni, l’arancione della KTM oggi rispecchia, nel campo moto, il valore del rosso corsa Ferrari. Come un’auto di Maranello è rossa, una moto di Mattighofen è arancione.
L’arancio (ti) mette le ali
Negli ultimi anni il colore di casa è stato affiancato dal blu della multinazionale che produce il noto energy drink: la Red Bull.
Fondata nel 1987 a Fuschl am See, a soli 50 chilometri da Mattighofen, Red Bull è oggi un marchio onnipresente in ambito sportivo. Gestisce due scuderie di Formula 1, la Red Bull Racing e l’Alpha Tauri. Possiede diverse società calcistiche (New York, Leipzig, San Paolo). Sponsorizza squadre in tantissimi sport estremi, come rally, mountainbike, surf, skateboard, snowboard, etc.
La collaborazione tra Red Bull e KTM è iniziata nel 2003, come sponsorizzazione per l’esordio della casa austriaca nella classe 125 del Motomondiale. A cui ha fatto seguito, due anni dopo, l’ingresso nella classe 250.
La prima avventura tra i cordoli durerà sino al 2009, anno in cui la casa austriaca ritira i team ufficiali. Sia per contenere le spese del bilancio aziendale, messe in crisi da una generalizzata crisi del settore, sia per concentrarsi sullo sviluppo della Rookies Cup, una competizione monomarca interna al Motomondiale e sponsorizzata dalla Red Bull, che ha lo scopo di coltivare giovani talenti. Ad oggi, dalla Red Bull Rookies Cup sono venuti fuori piloti come Johann Zarco, Jorge Martín e l’astro nascente Pedro Acosta.
Sempre col supporto della Red Bull, la KTM si riaffacia nel Motomondiale nel 2012. Prima in Moto 3, classe dove ha vinto 4 mondiali piloti – 2012, 2013, 2016 e 2020 – e 4 mondiali costruttori – 2012, 2013, 2014 e 2016. Poi, nel 2017 il Red Bull KTM Factory Racing Team approda anche nella classe regina, la MotoGP, con la RC16. Ma non ha ancora raccolto risultati paragonabili a quelli degli omonimi team che partecipano alle competizioni off-road.
La Red Bull infatti sponsorizza tutte le squadre ufficiali della casa austriaca impegnate nelle varie competizioni. Motocross, supercross, enduro, extreme enduro, rally e motomondiale. Dimostrandosi non solo un partner commerciale finanziariamente solido, ma compartecipe dell’esperienza KTM nel campo del motorsport.
L’immagine che le due multinazionali trasmettono infatti è quella di una carovana (anche se sarebbe meglio dire “corazzata”) che si approccia alle corse in maniera passionale, viscerale, divertente e colorata. E questo non significa che manchi di professionalità, dati gli elevati successi raggiunti. Semplicemente, il mondo attorno ai team KTM-Red Bull non appare austero come quello attorno a certi team giapponesi. O presuntuoso come quello attorno a certi team italiani.
Sotto certi aspetti, si può dire che la KTM ha stretto un connubio con la Red Bull allo stesso modo con cui l’ha stretto con KISKA. Le tre realtà sono autonome e distinte. Ma è la capacità che hanno di far dialogare e integrare le loro singole peculiarità a creare un milieu tecnico-sportivo-culturale che probabilmente non ha eguali nel campo delle due ruote.
In direzione ostinata e contraria
Le moto di Mattighofen o si amano o si odiano. Non è solo l’eccentrico colore a distinguerle dalla concorrenza, ma anche la loro particolare linea.
Il design a “spigoli vivi” non è facile da digerire per chi apprezza le armoniose proporzioni delle moto italiane o la razionalità, a volte un po’ eccentrica, delle giapponesi. Eppure, lo stile delle austriache è forse oggi quello che, più di tutti, ha seguito un percorso di crescita costante e coerente, che l’ha portato a raggiungere un family design maturo, preciso e riconoscibile, in grado di mantenere, nel tempo, la sua filosofia di partenza: essenzialità e zero compromessi.
Il “collo allungato”, i fanali che ricordano lo “sguardo” di un insetto, il taglio poco accomodante delle sovrastrutture. Sono solo alcuni tratti distintivi di quello che KISKA definisce “design attivo”. Capace cioè di evolversi, tanto nella sostanza quanto nella forma, in simbiosi con l’idea che la casa costruttrice ha del concetto di moto.
Osservando il listino degli anni Novanta e primi Duemila, è facile farsi distrarre dall’aspetto spartano e rustico, persino immaturo se vogliamo, dei modelli. Specie se confrontato con quanto sul mercato si poteva trovare. Ma ciò che si osservava era un diamante grezzo, che si formava in direzione ostinata e contraria ad alcune tendenze del settore automotive che, di riflesso, si potevano trovare anche in campo motociclistico.
O di spigoli o di curve
Sul finire degli anni Sessanta, il settore automotive vide diffondersi il cosiddetto wedge-design, uno stile caratterizzato da forme cubiche e dall’impostazione futurista. Questa tendenza, che col tempo finì per smussarsi, divenendo sempre più geometricamente anonima – tanto che a un certo punto i cunei diventarono rettangoli – si trascinò sino alla metà degli anni Novanta, quando i designer della Ford, tra cui il francese Claude Lobo, proposero alcuni modelli come la Ka, la Mondeo, la Puma e la Focus, che presentavano linee in grado di reinterpretare le scuole stilistiche che avevano dominato fino a quel momento.
Lobo e gli altri designer della Ford proposero quello che fu definito il New Edge Design, uno stile capace di fondere l’esasperazione delle curve del bio-design (teorizzato e messo in pratica dal designer tedesco Luigi Colani, che trovò applicazione nella nicchia delle auto sportive e dei prototipi) con l’ormai poco ispirata razionalità dell’edge-design, inaugurando così un processo stilistico evoluto fino ai giorni nostri, e che trovò applicazione anche nel settore motociclistico, specialmente quello di scuola giapponese.
Furono gli asiatici infatti i primi ad applicare alle moto il concetto di design su modello dell’industria automobilistica. Anche perché aziende come Honda e Suzuki nascevano, appunto, come costruttori di auto.
La Suzuki ad esempio, nel 1973 ingaggiò Giugiaro per progettare la RE-5, quella che doveva essere uno dei suoi modelli di punta. Ma il risultato non fu soddisfacente. Allo stesso modo, gli altri tentativi del designer italiano di inserirsi nel mercato motociclistico (ad esempio con la MV Agusta) non ebbero successo.
Sarà lui stesso a dire, in una recente intervista, che la progettazione di moto richiede un approccio pratico, perché funzionalità ed estetica devono coesistere, a differenza dell’auto, dove l’una può essere autonoma all’altra, ed è per questo che si tende a dire che, in un certo modo, le moto tendono tutte ad assomigliarsi.
Comunque, almeno fino agli anni Ottanta, il settore motociclistico progrediva a livello tecnico-artigianale. Dietro la realizzazione dei modelli c’erano ingegneri e meccanici che progettavano e assemblavano parti, attenti alla funzionalità e alle prestazioni del mezzo più che al suo impatto estetico. Piano piano però cominciarono a emergere pregevoli eccezioni, come la Suzuki Katana.
In Italia furono i fratelli Castiglioni a fare da pionieri dell’industria. Nel 1987 aprirono a San Marino il Centro stile Cagiva, dove sono nate alcune icone del motociclismo italiano, tra cui la Ducati 916, la Cagiva Elefant, l’MV Agusta F3 etc.
Quell’esperienza ha portato poi molte altre aziende italiane, e non solo, a dotarsi di un proprio centro stile interno. La stessa Ducati, col trio Galluzzi, Tamburini e Terblanche ha, di fatto, lasciato un segno indelebile nell’approccio alla progettazione delle motociclette. Sebbene l’ecletticità dei tre designer, molto diversi tra loro, ha portato a dei salti di stile speso mal digeriti dai fan del marchio. Su tutti, si pensi al passaggio dalla sportiva 998 alla sportiva 999. Per molti integralisti ancora un trauma insuperato.
KTM e KISKA non hanno dunque inventato nulla in questo senso. Si sono inseriti in una strada tracciata e battuta, all’epoca, da pochi audaci e visionari. Ma a differenza dei molti che, negli anni, ci hanno provato, la loro collaborazione si è caratterizzata e distinta per alcuni particolari.
Il primo è la costanza. Kiska e KTM collaborano insieme da oltre 30 anni. Questo ha permesso alle due realtà di coltivare un’idea estetica e concettuale delle moto che, nel tempo, non ha subito grossi cambi di direzione o ripensamenti. Ma è andata perfezionandosi e affinandosi, rafforzando come pochi altri l’identità del brand.
La seconda è l’autonomia. KISKA non è un reparto interno di KTM, ma uno studio di design e comunicazione autonomo. E benché abbia un intero settore dedicato alla collaborazione esclusiva con KTM, mantiene un ampio margine di operatività esterno al settore motociclistico.
Questo può apparire superfluo, ma in realtà permette all’azienda di non chiudersi all’interno di quell’autoreferenzialità, spesso un po’ conservatrice, tipica del mercato delle due ruote. E le permette di avere le competenze per accompagnare la vita del prodotto anche oltre la sua progettazione.
Essere in grado di costruire un prodotto eccellente infatti è solo la metà del lavoro. La restante metà è farlo capire al pubblico e convincerlo a comprarlo. Una lezione che un’azienda come Aprila dovrebbe imparare.
Quando negli anni Novanta KTM aveva a listino poche moto per il mercato generalista, Gerard Kiska convinse Pierer ad abbandona l’agenzia di marketing con cui KTM collaborava, e prese lui in mano la comunicazione aziendale, avviando una fitta campagna video-fotografica dove mostrava le moto in azione, in pista, nel fango, a vincere trofei e costruire un’identità. Una cosa oggi scontata, ma per l’epoca, per una piccola casa come KTM, era una rivoluzione. KISKA non si è limitato a disegnare le moto di KTM, ma ne ha da sempre curato la comunicazione a 360 gradi. A titolo di esempio, si può vedere la campagna messa in piedi per il 25° anniversario della Duke.
Segnali dal futuro
Lo stile delle KTM, pressoché unico nel panorama motociclistico, è definito oggi Hard-Edged Design, o Sharp-Edged Design, che dir si voglia. Ha trovato una delle sue massime espressioni nella prima superbike prodotta dalla casa austriaca: la RC8.
Presentata in forma di prototipo nel 2003 al salone del motociclo di Tokyo, la RC8 fu un vero e proprio guanto di sfida. Una provocazione fatta in casa dei più grossi produttori di moto da strada al mondo.
L’RC8 era tutto fuorché qualcosa che fino ad allora si era visto non solo in strada, ma nemmeno in pista. Era la materializzazione delle prime bozze schizzate su uno sketch book, senza troppa rifinitura. Una sagoma 3D venuta fuori da un foglio dove linee tese, angolari e aguzze la fanno da padrone.
Abituati alle forme tondeggianti e muscolari delle supersportive dell’epoca, sembrava di osservare una moto scolpita con un miracle blade da un’intelligenza artificiale venuta dal futuro appositamente per quello.
Le premesse annunciavano fuoco e fiamme: “non viene in pace, viene della KTM”, recitava il comunicato stampa di presentazione. Ma di lì a poco si sarebbe capito che la casa austriaca aveva fatto il passo più lungo della gamba, e che quel prototipo era un puro esercizio di stile che tale sarebbe rimasto. Difatti, anche se il modello definitivo non si discostava troppo dall’idea iniziale, non riuscì a scuotere realmente il mondo delle superbike analogamente a quanto facevano, nel fuoristrada, gli altri modelli della casa. E questo fu dovuto principalmente anche a una questione di tempismo.
Come ricordato da Wolfgang Felber, ex pilota e supervisore del progetto, la KTM non aveva “in casa” ingegneri formati per quella tipologia di moto. Questo portò quindi a uno sviluppo lento e tardivo. La versione definitiva arrivò ufficialmente a listino nel 2008, cinque anni dopo la sua presentazione. Da mezzo estremo per la pista, si era “ammorbidita”, trasformandosi in una superbike dalle alte prestazioni ma pensata più per un uso stradale.
La KTM inoltre, già impegnata nel Motomondiale, non investì in un team ufficiale per la Superbike. Si limitò ad affidare la moto a team privati che competevano in campionati minori, come la Superstock o la Superbike Britannica.
A questo si aggiunse il fatto che gli investimenti milionari fatti per portare a compimento la moto, non trovarono riscontro nel mercato, messo a dura prova dalla crisi del 2008, che spinse molti motociclisti ad abbandonare le prestigiose e costose supersportive, in favore di mezzi più “intelligenti”, adatti cioè a un uso polivalente, come le adventure bike o le naked.
Quello della RC8 è stato un progetto ambizioso ed estremo, ma nato sotto la stella sbagliata. Similarmente a quanto accaduto per la prima X Bow, l’auto da corsa che, per essere discussa, merita un articolo a sé. Ma che qui accenniamo soltanto per far notare che, sul lato commerciale, in quegli anni, KTM era un treno lanciato a folle velocità verso un’altra catastrofe finanziaria. Non troppo differente da quella avvenuta oltre 20 anni prima, con una piccola ma sostanziale differenza di contesto. La cortina di ferro era crollata e la globalizzazione era un processo a pieno regime.
Le grandi firme
Tra il 2007 e il 2008, Rajiv Bajaj, business man indiano a capo della multinazionale Bajaj Auto, fa un giro in Europa per vedere che aria tira tra i produttori di motociclette locali, fiaccati dalla crisi economica che si stava espandendo a macchia d’olio.
Bajai Auto è un colosso specializzato nella produzione di scooter e motociclette di piccole cilindrate (tra i 50cc e i 350cc), molto popolari in paesi come India, Cina e Sud America, ma che qui da noi non venivano importate.
Rajiv capisce che la crisi ha aperto una possibilità per vendere i suoi prodotti in Europa. Ma da attento uomo d’affari quale è, sa che per farlo la qualità da sola non basta, ci vuole il prestigio di un marchio ad attirare un cliente esigente. Il marchio infatti, come afferma in un’intervista rilasciata a Forbes, è qualcosa che fa leva sulla mente del consumatore, specie nei mercati ricchi, dove scegliere un brand piuttosto che un altro non è solo questione di disponibilità economica, ma anche di immagine. La cinese Qianjiang Motor, che in quegli stessi anni acquistò Benelli, l’aveva ben capito.
Rajiv Bajaj fa visita a John Bloor, l’allora proprietario di Triumph. Dopodiché fa un salto a Borgo Panigale, dove si vocifera che la Texas Pacific Group voglia cedere il marchio Ducati al miglior offerente. E di ritorno si ferma in Austria, presso la KTM.
Triumph, KTM e Ducati, sono tre aziende con storia e filosofia differenti. Le Triumph sono moto dal raffinato gusto britannico. Le Ducati trasudano stile e prestazioni. Le KTM, l’abbiamo visto finora, esaltano la purezza anticonformista. Tuttavia, all’epoca, erano tre aziende più o meno equivalenti in termini di fatturato e vendita, e di offerta di prodotti: modelli di fascia premium destinati a mercati ricchi ma saturi e in crisi. Nessuna aveva a listino modelli di fascia economica, idonei ad aggredire mercati emergenti, come quello indiano, cinese, o sud americano.
L’equazione è presto fatta. L’idea di Rajiv era quella di fornire il proprio know-how per la produzione di motociclette di piccola cilindrata (che agli europei mancava), in cambio della possibilità di sfruttare il prestigio del marchio (che all’indiano mancava)
La Ducati però era appena stata ceduta dal Texas Pacific Group alla Investindustrial Holdings, di Andrea Bonomi, il quale, nel 2012, la rivenderà al gruppo Volkswagen. La Triumph, più semplicemente, rifiutò l’offerta.
La KTM fu la sola ad accettare, e Bajaj entrò in società al 14%. Nacque così una partnership che permise alla KTM di entrare nei mercati emergenti e alla Bajaj di entrare in quello europeo.
Ciò fu reso possibile grazie a una nuova linea di prodotti destinata a un pubblico giovane: 16-20 anni. Motociclette di cilindrata compresa tra i 125cc e 390cc, progettate dalla KTM in Austria ma prodotte, motorizzate e assemblate in India dalla Bajaj, e vendute sia in Europa che nei mercati emergenti.
Nuove connessioni
L’accordo è stato un successo, tant’è che anche la Triumph ci ha ripensato. Il colosso indiano oggi detiene il 47% delle quote del marchio austriaco, e nella linea delle “piccole” si è inserito anche il marchio Husqvarna, che da qualche anno sta subendo un processo di restyling e rilancio da parte della stessa KTM, detentrice del marchio.
Forte del successo con Bajaj, nel 2017 la KTM ha siglato un accordo con la CF Moto, colosso cinese che, dal 2014, distribuisce le piccole KTM-Bajaj in Cina. Quella tra CF Moto e KTM è una vera e propria Joint venture, di cui la casa austriaca detiene il 49% mentre la cinese il 51%.
Nella provincia di Hangzhou è sorto uno stabilimento dedicato alla produzione di KTM e Husqvarna, in grado di assemblare, a pieno regime, fino a 400 mila moto l’anno. Non tutti i modelli però, ma solo quelli equipaggiati con il bicilindrico parallelo della casa austriaca: il 790, divenuto, oggi che scriviamo, 890. I modelli di alta gamma, quelli costruiti sullo storico bicilindrico a V di Mattighofen, l’evoluzione dell’LC8, continuano a essere prodotti in Austria.
CF Moto, all’interno della partnership, avrà licenza d’uso e sviluppo dei motori KTM, attorno a cui sta progettando i suoi modelli da importare anche nel mercato europeo.
È infine notizia recente che, a partire dal 2022, la CF Moto, su progetto KTM, produrrà una nuova linea di motori 750cc, su cui verranno costruite le medie della casa austriaca, mentre dall’India arriverà, prossimamente, un bicilindrico di 490cc, in grado di coprire quella fascia di mercato un po’ snobbata in Europa, ma che la direzione cinese di Benelli ha individuato, portando al successo di vendite una moto come la TRK.
Queste due alleanze hanno permesso a KTM di superare la crisi dei primi anni zero, divenendo, tra il 2008 e il 2016, l’unico costruttore europeo in costante crescita, mentre tutti gli altri arretravano.
Nel 2017 la KTM è diventata il primo produttore europeo di motociclette, con oltre 230 mila veicoli annuali prodotti, di cui la metà vendute fuori dai confini del vecchio continente.
Gli orange days dunque continueranno negli anni a venire, e siamo curiosi di vedere come la particolare strada intrapresa da questa casa possa continuare.