Quella di Alta Motors è una storia fatta di amore per le moto, tecnologie all’avanguardia, successi sportivi e fondi bruciati. Una meteora che ha attraversato il cielo della Silicon Valley, nel tentativo di diventare la Tesla su due ruote.
La scorsa estate ho conosciuto una persona che lavora nella Motor Valley emiliana, per un’azienda che si occupa di progettare e fornire pacchi batteria per marchi automobilistici di prestigio.
Secondo lui, ad oggi, la diffidenza verso l’elettrico non deriva dalla “scarsa” autonomia dei mezzi. Quello è un falso problema, che nel giro di pochi anni verrà dimenticato, così come a breve passerà in secondo piano la questione ambientale (come produco l’energia per muovere un mezzo elettrico e che fine fanno le batterie esauste).
La diffidenza, mi diceva, deriva da un’assenza di paragone. E verrà superata quando nelle gare inizieranno a competere motori elettrici contro motori termici. Un po’ come si fece in passato col passaggio dal 2 Tempi delle 500 al 4 Tempi delle GP. Davanti al margine di sviluppo che l’elettrico ha rispetto al termico, anche i più conservatori inizieranno a ricredersi.
Oggi infatti, nelle principali competizioni motociclistiche (come la MotoGP), i veicoli elettrici fanno categoria a sé, e hanno visibilità mediatica ridotta. Sarà (anche) per questo che il mercato elettrico consumer è più interessato al turismo su due ruote che alle competizioni, dunque produce mezzi per una nicchia “tecno-ottimista” e dal portafoglio importante.
Quale che sia la risposta, le gare restano un ottimo volano per la vendita e la visibilità di un brand (vedi il lavoro di Ducati degli ultimi anni). Ma sono soprattutto uno dei principali banchi prova per le nuove tecnologie motoristiche e le successive applicazioni su strada (di nuovo: vedi il lavoro di Ducati degli ultimi anni, anche nel comparto elettrico).
Qualcosa in questa direzione sembra muoversi. È notizia recente che la Honda correrà il campionato nazionale motocross giapponese, con una CR elettrica, affidando il suo prototipo al pilota statunitense Ray Canard, vincitore nel 2010 del campionato AMA Pro Motocross in classe 250.
La notizia, nel suo piccolo, ha sollevato il solito nugolo di polemiche, tra chi annuncia la morte del motorsport e chi sostiene che i tempi sono ormai maturi, se anche la casa motociclistica più grande del mondo entra nella competizioni con un modello elettrico.
In realtà la Honda già stava testando motori elettrici col progetto Mugen che correva al TT, ma va anche detto che non è la prima né a costruire una motocross elettrica, né a dimostrare che può competere (e vincere) contro gli equivalenti termici.
In questo articolo mi piacerebbe ripercorrere la storia della Alta Motor. Una delle tante meteore che hanno attraversato la “Motor Valley” californiana, nel tentativo di arrivare prima sul treno dell’elettrico, e spodestare produttori europei e giapponesi dal trono delle due ruote. Un tentativo mancato per poco. Alta infatti è riuscita a sviluppare un modello di moto elettrica altamente performante, da usare in competizioni di motocross, contro equivalenti a benzina, riuscendo a vincere e a creare un elevato hype intorno al mezzo, superando le aspettative stesse dell’azienda, prima di chiudere per fallimento nel 2018.
Alta ha lasciato dietro sé una pagina di motociclismo fatta di amore per sfide, tecnologie all’avanguardia e sogni mai divenuti realtà.
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Le origini di Alta Motors
Nel 2012 la Tesla commercializza la Model S, che diventa un punto riferimento del settore automobilistico elettrico, e traina con sé l’ottimismo di investitori e mercato, anche sulle 2 ruote. In quegli anni i riflettori sono puntati su aziende come la Lightning Motorcycles e Mission Motorcycles, capaci di creare mezzi ad altissime prestazioni.
I tempi sembrano maturi, e all’interno del un nuovo mercato in fermento emerge una start-up di nome Alta Motors, fondata nel 2007 da Mark Fenigstein col nome di (poco accattivante) BRD Motorcycles.
Nel 2012, dopo il rebrand, Fenigstein assume l’ingegnere Rob Sweney, che ha già lavorato in Volkswagen per le Audi RSe/eTron, e per la Lucid Motors (ex Atieva), altra azienda californiana impegnata nello sviluppo di veicoli elettrici. L’incarico è quello di sviluppare un pacco batteria ad alte prestazioni e compatto, ideale per una moto. Le risorse per raggiungere l’obiettivo non mancano, dato che nel 2014 Fenigstein si è assicurato un finanziamento da parte di Martin Eberhard e Marc Tarpenning, co-fondatori di Tesla.
La nascita e lo sviluppo della prima Alta Redshift
Alta presenta la sua prima moto elettrica nel 2016: la Redshift, in versione cross (MX) e motard (SX). È pensata per il solo uso agonistico, e queste sono le sue caratteristiche tecniche:
- Potenza: 40cv
- Peso: 120 kg
- Autonomia: 2 ore e mezza
- Tempo di ricarica: 3 ore.
- Prezzo: 15 mila dollari.
I numeri non sono da capogiro. Per fare un confronto, nel 2016 una Honda CRF250 costava poco meno di 8 mila dollari e pesava 105 kg.
La scelta di sviluppare una moto da fuoristrada anziché da pista però, non è casuale. La motocross non necessità di un estremo range prestazionale, ed è più economica da gestire. La strategia è simile a quella di Tesla, che con la sua prima auto, la Roadster, non si lanciò nel mercato delle berline di lusso, né delle super sportive, ma si orientò verso una nicchia più semplice e poco affollata, quella delle roadster.
La prima uscita in pista (e i primi successi)
Nel 2016 la Alta Redshift MX debutta al Red Bull Straight Rhythm di Pomona (California), nella classe 250, col pilota americano Josh Hill.
Si tratta di una competizione supercross, da correre su tracciato dritto. Niente curve. Solo una serie di salti ravvicinati, come onde. Un testa a testa tra 32 piloti, che devono “surfare” sopra i dossi, e arrivare per primi a tagliare il traguardo per non essere eliminati.
Josh Hill supera il primo round, vincendo 2 sfide su 3, ma è fuori al secondo. Dimostra comunque la competitività della Alta, avvantaggiata dal fatto che il motore elettrico riesce a scaricare a terra il 25% di potenza in più rispetto alle controparti a benzina.
Sempre nel 2016, Alta prende parte ad alcuni round del campionato Enduro-Cross americano, nella classe veterani (over 35), col pilota Kurt Nicoll, ottenendo una vittoria nel round di Denver.
Nel 2017, dopo un fugace ritorno al Straight Rhythm di Pomona, Alta vuole spostarsi in Europa per partecipare ai Supercross di Parigi e Ginevra, nella categoria SX2 (250cc), perché la federazione motociclistica americana non vuole prendersi la responsabilità di far gareggiare in una stessa competizione veicoli con motori differenti, mentre i francesi sembrano più elastici.
Tuttavia, Alta non riuscirà a prender parte al round di Parigi, per via delle restrizioni sul trasporto di celle batterie di grosse dimensioni sugli aerei, che impediscono l’invio per tempo delle moto ufficiali in Europa.
Alta riesce comunque a prendere in “prestito” una Redshift MX venduta un anno prima a un cliente europeo, e a riadattarla appena in tempo per la Duel Cup del round di Ginevra.
Per l’occasione Josh Hill e la sua cross elettrica sfidano il veterano Richard Carmichael, detto G.O.A.T — the Greatest Of All Time. Campione del motocross e supercross americano, in attività tra il 1997 e il 2007, Carmichgael guida una Suzuki RM-Z450 a benzina. Contro ogni aspettativa, Hill vince. Qui il video.
Il pregevole risultato va contestualizzato. La Duel Cup è una gara di contorno al Supercross, più d’intrattenimento che altro, in cui 8 piloti selezionati si sfidano 1 contro 1, con eliminazioni dirette.
Nessuno dei due piloti aveva qualcosa da perdere nella sfida. Carmichael non gareggiava ufficialmente da oltre 10 anni, mentre Hill era in piena attività, sebbene su un una moto non ufficiale e motorizzata elettrica. Il risultato sportivo resta comunque ammirevole.
Per trovare una prestazione simile, bisogna tornare indietro di circa cinque anni, al 2013, quando il compianto pilota Carlin Dunne, in sella a una LS-218, della Lightning Motorcycles (altra azienda californiana produttrice di moto elettriche), stacca il miglior tempo su due ruote di quell’edizione della Pikes Peak Hill Climb, fermando il cronometro 10:00.694. La seconda moto dopo di lui, la Ducati Multistrada 1200 di Bruno Langlois, è a 10:21.30.
Il tempo segnato da Carlin Dunne, oltre a essere il miglior tempo per la categoria moto elettriche, resta il secondo miglior tempo su due ruote della competizione. Meglio di lui soltanto Rennie Scaysbrook su Aprilia Tuono V4 1100, nel 2019, che segna 9:44.963.
Lo sviluppo del progetto, tra rodei, furti e grossi investitori
La fiducia data dai primi risultati sportivi spinge la casa californiana a premere l’acceleratore sul progetto, e nel 2018 viene stretto un accordo finanziario con l’Harley Davidson (su cui torneremo), a cui fa seguito il primo sostanziale aggiornamento della Redshift:
- 10 cv in più rispetto alla versione precedente.
- Sospensioni WP (come le migliori cross austriache).
- Tempi di ricarica dimezzati: da 3 ore a 90 minuti.
- Ridotto il calo prestazionale dovuto alla bassa carica della batteria.
- Prezzo a partire da 10.500 $.
La nuova moto è pronta per il debutto in due competizioni professionali.
In America, col pilota Ty Tremaine, Alta partecipa alla categoria Pro dell’Enduro Cross, ottenendo un terzo posto assoluto nel round di Reno, in Nevada, e divenendo la prima moto elettrica a salire sul podio in una competizione nazionale americana.
Sempre con Ty Tremaine, e insieme a un altro veterano del settore, Lyndon Poskitt, Alta partecipa all’Erzberg Rodeo, la competizione più estrema del motocross, che si tiene ogni anno a Eisenerz, in Austria, sotto l’egida della KTM.
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La Redshift non è la prima moto elettrica a partecipare al Rodeo. Quello stesso anno in griglia c’è Markus Schade, pilota tedesco che guida una Zero FX. Ma Alta è la prima casa motociclistica elettrica a schierarsi ufficialmente nella competizione.
Ty e Lyndon si qualificano rispettivamente 48° e 113°, su 1500 partecipanti. Un piazzamento notevole, se si tiene conto che nessuno dei due ha praticamente terminato la corsa.
Lyndon Poskitt ha infatti svolto solo le qualifiche, perché mentre il team si dirigeva in Austria, il furgone dove erano alloggiate le sue moto è stato svaligiato, e lui ha dovuto usare le moto preparate per Ty.
Ty Tremaine invece ha avuto difficoltà nella gestione della carica del powertrain, e si è ritrovato con la batteria a terra prima del cambio previsto. Considerando che la corsa è lunga 35 km, il fatto che Ty abbia esaurito la carica a circa la metà, non significa che la Redshift sia in grado di percorre giusto l’isolato di casa.
Le corse su sterrato sono molto complesse, e più è accidentato il terreno o più è estremo il dislivello da affrontare, più è richiesta energia per mantenere grip e spingersi avanti. Tant’è che anche le moto a benzina hanno un pit stop per il rifornimento, e Alta ne aveva uno previsto per il cambio batterie. Inoltre l’Erzeberg Rodeo è una gara da una botta e via. Vai lì, setti la moto, e ti butti nella mischia. Se qualcosa va storto, prendi appunti e il prossimo anno riprovi. Il set up si fa in gara e quello delle Alta, al primo anno di partecipazione, è stato fatto con dati ipotetici, quindi un errore è nell’ordine regolare delle cose. Il pacco batterie non si è distrutto, né è andato a fuoco. Si è scaricato prima di quanto previsto dai dai calcoli. Può capitare anche di terminare la benzina. Chiedete a Zarco e al team Tech 3.
Il lavoro e i risultati della competizione hanno portato risultati notevoli in casa Alta, e la competizione austriaca sembrava il trampolino di lancio per il costruttore americano:
“We built the Redshift to compete head-to-head with the best gas bikes in the most brutal environments in the world. The Erzberg extreme enduro is the place to demonstrate that. The race comes at a time when electric bikes are struggling for acceptance in international competition. We are grateful that the Erzberg organizers share our belief that competition should be about advancing technology — not restricting it — and that they are providing a platform to demonstrate that electrics should have the right to compete”
Dai carburatori alle batterie…
L’Erzberg Rodeo del 2018 tuttavia è stato l’ultima competizione ufficiale a cui ha preso parte Alta.
Il 18 ottobre dello stesso anno, l’azienda ha chiuso i battenti, a seguito di problemi finanziari che non le hanno permesso di produrre le moto richieste e di trovare per tempo nuovi finanziatori. Ciò che resta dell’Alta oggi è in mano a due aziende: la Harley Davidson e la BRP.
Molti si sono chiesti come sia stato possibile che un’azienda in grado di realizzare un ottimo prodotto, valido e competitivo, come la Redshift, sia finita gambe all’aria nel volgere di qualche mese.
Per capirlo, dobbiamo fare un salto indietro, al 2014, anno in cui la Harley Davidson aveva annunciato il processo di transizione all’elettrico col progetto LiveWire, lasciando la stampa di settore spiazzata. Tutti pensavano che la casa di Milwaukee, visto il suo pedigree, sarebbe stata l’ultima a salire sul treno elettrico, non la prima.
Ma l’Harley, all’epoca, aveva una grossa gatta da pelare: una fan base che invecchiava e un comparto stilistico, tecnologico e soprattutto culturale, anacronistico e poco attrattivo per le nuove generazioni. Il mercato dell’elettrico rappresentava un bacino profittevole su cui puntare, e per farlo rapidamente, aveva bisogno di un partner con un’esperienza consolidata.
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… a quando la Apple fu accusata di furto di ingegneri
Harley Davidson stringe un accordo con quello che all’epoca era il principale costruttore di moto elettriche americane: Mission Motorcycle, azienda nata nel 2007 a San Francisco.
Tra i suoi modelli di punta si ricorda la Mission R, che ha corso nel TTXGP, campionato mondiale dedicato alle moto elettriche nato in seno al TT dell’isola di Mann, e poi approdato al seguito di campionati nazionali, come l’AMA Superbike Championship. La Mission R ha anche segnato il record della pista per le moto elettriche di Laguna Seca,: 1:31.376, col pilota Steve Rapp, ancora imbattuto.
La superbike della Mission doveva essere la base, addomesticata, su cui costruire la prima Live Wire, ma non si andò oltre il modello prototipale, perché la Mission Motorcycle fallì nel 2015.
Secondo le speculazioni del suo ex CEO, Derek Kaufman, la causa del fallimento della Mission è da imputarsi ad Apple, che le portò via i migliori ingegneri, lasciando il comparto R&D allo sbando e poco appetibile per gli investitori. La Apple infatti in quel periodo stava sviluppando un suo progetto interno di veicoli elettrici a guida autonoma, poi abbandonato.
Secondo il giornalista Jensen Beeler, che ha seguito la vicenda da vicino, la fine del sogno a due ruote targato Mission in realtà si deve alla scelta di dividere l’azienda in due filoni: la Mission Motors, dedicata alla sviluppo di batterie e componenti per auto elettriche, e la Mission Motorcycle, dedicata allo sviluppo della motociclette. La prima divisione assorbiva quasi tutti i fondi, perché economicamente vantaggiosa. La seconda si ritrovava a lavorare in perdita, e dunque era costretta a ridimensionare il personale, che emigrava verso lidi più rigogliosi, tra cui la Apple.
Un nuovo partner per Harley
Il progetto LiveWire rimase dunque in fase prototipale fino al tardo 2018, quando ricomparve a sorpresa a EICMA, con promessa di vendita già dai primi del 2019.
A differenza del primo prototipo, questo secondo dichiarava una potenza di 105 cavalli, un’autonomia di 250 chilometri, e un prezzo di acquisto di 30 mila dollari. (Non proprio abbordabile per la fascia 20-35enni che la HD cercava di conquistare, tant’è che nel 2021 ne furono vendute appena 400).
Per la produzione della nuova Live Wire, nel marzo del 2018 Harley strinse un accordo proprio con Alta Motors che, nelle parole dell’allora CEO Harely Matt Levatich:
“Alta has demonstrated innovation and expertise in EV and their objectives align closely with ours. We each have strengths and capabilities that will be mutually beneficial as we work together to develop cutting-edge electric motorcycles
L’azienda californiana però non ci sta, sebbene i fondi della Harley facciano comodo visto che Alta ha un R&D in pieno sviluppo, ordini per 300 moto da consegnare entro il 2018, l’intenzione di partecipare a nuove competizioni, e soli 45 milioni di dollari di fondi raccolti.
Secondo le fonti di FortNine, l’Harley si è dunque proposta come principale finanziatore dell’azienda, siglando con essa un accordo di esclusività.
Come confermato da un pezzo di Jensen Beeler infatti, Harley offre ad Alta i soldi e un canale diretto di accesso a fornitori e rete vendita, cosa che per una realtà minuscola sono essenziali. In cambio, l’Alta dovrà produrre due moto elettriche marchiate Harley. Una è la Live Wire, che da prototipo deve diventare solida realtà. Un’altra è una Redshift ST ribrandizzata.
La ST era un prototipo di mini-urban-naked, una moto spartana e leggera, che incrocia la praticità di uno scooter con la specificità di telaio e sospensioni derivate dalle piste da cross, perfetti per muoversi in città. Oltre questo poi, erano in previsione anche delle e-bike.
Secondo la tesi complottistica, l’Harley, siglato l’accordo, ha iniziato a ridurre drasticamente i finanziamenti promessi, sino a mandare in bancarotta l’azienda, per poi acquistarla e sviluppare da sé quanto desiderava, sfruttando il know-how di Alta.
Non esistono però prove dirette di questo comportamento, ma solo deduzioni, derivate da alcune domande:
- Perché se l’Alta aveva bisogno di soldi, non ha cercato altri finanziatori, oltre Harley?
- Perché, come suggeriva anche Motoreeto, nessun big player, tipo KTM, ha deciso di acquistare un’azienda che sull’elettrico era molto avanti, portandosi a casa un pacchetto già pronto da ribrandizzare?
- Perché, in concomitanza con la dipartita di Alta, l’Harley ha aperto un suo centro di ricerca e sviluppo per la mobilità elettrica proprio nella Silicon Valley?
Per qualcuno, la risposta è insita nelle domande irrisolte. Ma per quanto questa tesi sia la via più semplice e affascinante della storia, bisogna anche prendere in considerazione la “pista” realista.
Perché Harley avrebbe dovuto ridurre i finanziamenti?
Secondo alcuni analisti, è perché Alta non diede priorità allo sviluppo della linea Harley, ma dirottò gli investimenti sullo sviluppo della Redshift, tant’è che il modello aggiornato uscì poco dopo l’accordo tra le due aziende, pronto al debutto all’Ezberg Rodeo.
La Alta insomma si stava chiudendo sempre più in un mercato altamente di nicchia: quello delle competizioni da cross, ignorando l’uso ricreativo e amatoriale della moto, cioè il mercato consumer che interessava invece ad Harley.
Questa scelta ha spaventato gli investitori, cioè Harley stessa, che dopo un elevato credito iniziale, si è resa conto che la china presa da Alta avrebbe portato al fallimento dell’azienda, trainando con sé tutto il progetto elettrico, come già successo con Mission.
La Harley si è presa tutto ciò che è rimasto dal fallimento di Alta?
No. Dopo il crack, parte di Alta è stata acquistata dal gruppo canadese BRP, a cui l’azienda californiana si era già rivolta. Forse BRP si è comportata più scorrettamente di Harley, perché anziché finanziare Alta nel momento del bisogno, ha aspettato che morisse, per poi acquistare quanto serviva per crearsi una propria linea di moto elettriche.
Ciò che resta di Alta oggi
Insomma, probabilmente la storia di Alta non è dissimile a quelle di tante start-up del comparto tecnologico.
Metti insieme un gruppo di appassionati pieni di talento e visionari, ma incapaci a gestire economicamente un’azienda. I grandi gruppi industriali ci hanno creduto, sino a che non hanno visto dilapidare gli investimenti oltre ogni ragionevole business plan commerciale, e si sono tirati indietro un attimo primo dello schianto, per poi raccogliere i cocci.
Ciò che resta di Alta oggi è una storia fatta di amore per le moto, tecnologie all’avanguardia, successi sportivi e fondi bruciati. Una meteora che ha attraversato il cielo della Silicon Valley, nel tentativo di diventare la Tesla su due ruote, battendo sul tempo anche colossi come Honda e KTM.