La fiera EICMA 2021 è stata un grande tributo al motociclista che fu. Ma del motociclista che sarà, si son viste poche tracce. Una riflessione attorno all’esposizione internazionale del ciclo e motociclo, partendo da alcuni dei modelli più attesi.
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EICMA 2021: la prima volta
Quest’anno sono stato per la prima volta all’EICMA. Non è stata l’edizione migliore da cui partire per conoscere l’esposizione, vista la formula ridotta con cui è andata in scena. Ma contavo sul fatto che il periodo storico avrebbe portato meno gente e dunque dato possibilità di vivere meglio la visita. Ho scelto anche una giornata “minore” (venerdì), ma le code e la concentrazione di persone attorno a determinati modelli e marchi era comunque elevata.
Due veterani frequentatori della fiera mi hanno rassicurato sul fatto che, tutto sommato, quest’anno si poteva camminare e respirare tra i padiglioni. Mi chiedo allora, avendo frequentato altre fiere di altri settori, con gli stessi disagi vissuti ad EICMA, se abbia senso riflettere oggi sull’utilità del modello “fiera”. Perché pagare un biglietto d’ingresso, un biglietto di treno – o di benzina e autostrada –, addirittura un albergo (per chi viene da lontano), per entrare in un luogo sovraffollato, confusionario, con lunghe code ai bagni e ai (cari) chioschi di ristorazione, per fare ciò che si può fare, senza stress, nella concessionaria più vicino casa?
Il modello fiera: la celebrazione di un culto
Per gli ordinari visitatori, uno dei motivi fondamentali di andare a una fiera è vedere, scoprire, e toccare le novità del settore in anteprima. Fatta qualche eccezione, gran parte dei modelli esposti a EICMA quest’anno sono stati presentati alla stampa settimane prima della fiera. Di questi si sapeva tutto. Restava solo, per chi ne dava la possibilità, di toccarli o salirci sopra. Una cosa che si può fare nella concessionaria più vicino casa, senza la calca di persone dietro che aspetta il proprio turno.
Persa questa sua funzione di “scoperta” dunque, alla fiera non resta che lavorare sulla celebrazione del culto attorno a cui nasce, per non sembrare una versione gigantesca di un concessionario multimarca il sabato pomeriggio. Costruire uno spazio dentro cui condividere una ricorrenza. Sentirsi parte, per una o più giornate, di un rito collettivo che trascende l’individualità e si fa passione universale e palpabile.
In questo senso, esserci è essenziale non solo per gli appassionati, ma anche per i marchi, ultimi custodi ed estensori del culto. Non esserci, significa snobbare il rito e tradire i fedeli, che vengono lì – anche – per te. Significa porsi come eretici e fondare un proprio culto elitario, quasi fosse un club esclusivo che non accetta altri membri al di fuori dei propri adepti.
Non credo che BMW, KTM, Ducati, Harley Davidson, Dainese, Arai e gli altri marchi assenti perdano la propria clientela in favore dei cinesi non presentandosi a EICMA. La loro posizione nel mercato è solida e definita – mentre i cinesi, qui, la devono ancora costruire. Di certo segnano un precedente, quasi a voler dire che per loro, il modello fiera, è superato, dispendioso, inutile. Meglio coccolare il cliente in tranquillo e curato show room, che intravederlo in una caotica e frenetica kermesse.
Niente sarà più come prima, dunque. Non solo nel modo in cui ci si presenta al cliente, ma anche in ciò che gli si presenta. Quest’EICMA, sotto certi aspetti, è stato un grande tributo al motociclista che fu. Ma del motociclista che sarà, si son viste poche tracce. In questo senso, la locandina di Victor Togliani ispirata alle linee del movimento Futurista, era da prendere alla lettera. Un tributo al passato, e non un inno al futuro.
Lucky Explorer Project: fantasmi autoreferenziali
Da diversi anni anche il settore motociclistico soffre di un evidente attacco di retromania, patologia che impedisce lo slancio e l’accelerazione necessaria per andare verso il futuro, in favore di un pigro collasso nella sicurezza dei successi passati.
Honda Africa Twin, Suzuki Katana, Yamaha Teneré, Aprilia Tuareg. Ora anche MV Agusta rispolvera un defunto marchio: Cagiva. In particolare, quello legato all’endurona Elefant brandizzata Lucky Explorer, che nel 1990 e 1994, con Edi Orioli, vinse la Parigi Dakar.
I motivi di questo passo del gambero mascherato da innovazione sono due:
– I vertici delle case costruttrici scarseggiano di idee e finanze per lo sviluppo di nuovi settori/prodotti;
– Ci troviamo in un periodo di transizione, e nell’attesa di trovare una direzione solida e precisa, i costruttori battono cassa coi motociclisti over 50, gli unici – almeno in Italia – ad avere il potere economico utile per acquistare una moto nuova.
Questo per dire che – con tutto il rispetto per il palmares sportivo delle due ruote italiane –, sullo stand MV Agusta Lucky Explorer è andata in scena la morte della ricerca e dell’innovazione quale principio che ha sempre contraddistinto i brand italiani.
La MV Agusta Lucky Explorer 5.5 è una Benelli TRK 502 col frontale ridisegnato. Ma, dicono i più attenti, qualitativamente superiore alla cino-pesarese. Non si mette in dubbio, perché fare peggio sarebbe stato impossibile. La Benelli TRK è sul mercato da cinque anni. È la moto più venduta d’Italia. È quella maggiormente messa sotto torchio da consumatori e tester. Per migliorarla non serve un grosso investimento in termini di ricerca e sviluppo.
Chi è l’acquirente di una MV Lucky Explorer 5.5? Un neopatentato amante degli enduro. O un motociclista di ritorno, nostalgico del brand Cagiva. Al più, una parte dei potenziali acquirenti della Benelli TRK 502, che vogliono provare un gusto differente. O tutti quelli che non si potranno permettere la versione più grande: la MV Lucky Explorer 9.5. Benché questa sia un prodotto 100% interno, e non un’operazione di Badge Engineering, basterà a far la differenza? Difficile dirlo, perché verrà commercializzata soltanto nel 2023.
La Ducati intanto presenta la Desert X. Moto che, partendo dallo stesso passato nostalgico (la Ducati era proprietà di Cagiva), sembra guardare al futuro con più concretezza. Fosse anche solo perché la casa bolognese, con la proprietà tedesca alle spalle, le moto non si limita a farle, ma si sforza di venderle.
L’operazione della MV Agusta è dunque hauntologica. Utilizzando una reliquia della cultura motociclistica italiana degli anni Novanta, evoca un mondo nostalgico, una dimensione fuori dal tempo, in cui il passato emerge nel presente come lo spettro di un futuro che non è mai stato: cioè quello dell’ascesa del marchio Cagiva nel settore enduro.
MV Agusta è un brand chiuso nella sua nicchia elitaria, nostalgica e autoreferenziale (c’era Agostini allo stand?). Capace di costruire moto sopraffine ma interessate più a fare bella mostra di sé su piedistalli da esposizione museale, che su strade o su pista. A tirar fuori da un foglio bianco una costosa Ferrari sono buoni (quasi) tutti. La vera sfida è tirar fuori una panda.
Moto Guzzi V100 Mandello: poche chiacchiere
Per tributare i 100 anni del marchio si poteva osare di più? L’estetica, dicono, lascia perplessi, se non quando indifferenti. Ma la sfida non è fare una moto da copertina. La sfida è fare moto intelligenti che poi si vendono e dunque tengono vivo il marchio senza flebo di fondi russi o cinesi. E per fare questo a volte è necessario chiacchierare meno, darsi meno arie.
Per questo Moto Guzzi mi ha piacevolmente colpito. Più dell’Aprilia, che ha chiuso la trilogia della sua – bella e nuova – piattaforma 660 rispolverando un’icona del passato che strizza l’occhio a motociclisti non più ventenni ma con un buon conto in banca. Un plauso al Gruppo Piaggio, che sembra lavorare bene sui marchi, benché piano rispetto alla concorrenza.
Benelli TRK 800: una bolla pronta a esplodere
La TRK 800 era forse la moto più attesa del salone. Nonché quella che portava il fardello più grande: soddisfare le aspettative di chi la reclamava da anni, fomentato dal successo della piccola 502. Eccola dunque, sebbene non in veste definitiva. Non si conoscono ancora i dettagli estetici, la dotazione, i colori, e soprattutto il prezzo finale.
Non si nega infatti che una delle leve usate da Benelli per scardinare il mercato sia stato il prezzo delle sue moto. Ma non solo. La chiave del successo è stata quella di proporre un mezzo dall’aspetto maturo e completo, equipaggiato con una cilindrata intelligente, adatta a un parco utenti ampissimo. Neopatentati, motociclisti di ritorno, motociclistici che non cercano le prestazioni o che non vogliono aprire un mutuo per pagare la triade bollo-assicurazione-manutenzione. Una fetta di mercato ricca ma snobbata da molti costruttori. Vuoi perché ritenuta di basso prestigio. Vuoi perché ciò che può fare un bicilindrico 500 lo fa tranquillamente uno scooter di cilindrata simile, e il listino di molti costruttori – specie orientali – quelli proponeva.
Al netto di alcune pecche sulla qualità costruttiva, il mercato ha dato ragione alla Benelli.
La TRK 800 andrà però a giocare su un altro campo, dove le best-seller di settore non mancano. Una è la Honda NC750X. Una moto molto apprezzata da chi cerca un mezzo capace di coprire ogni raggio d’utilizzo. Benché la Honda faccia il minimo sindacale per sviluppare e rendere accattivante questo modello, resta una delle moto più vendute al mondo.
Un’altra è la Yamaha Tracer, che nelle sue due cilindrate è in grado di inglobare le stesse esigenze dei potenziali acquirenti di una TRK 800, offrendo un mezzo collaudato e sul mercato ormai da parecchi anni.
Tra i produttori europei abbiamo invece la Moto Guzzi V85TT, le BMW F850 e F750 GS, la Triumph Tiger 850, la KTM 890 ADV. Si tratta di modelli raffinati, con un prezzo d’acquisto più alto rispetto alle giapponesi, ma si citano per evidenziare l’affollamento del mercato in questa fascia di cilindrata. Un affollamento che potrà essere evitato grazie alla fan base che la Benelli in questi anni ha coltivato. Ma per i nuovi consumatori, il prezzo finale potrà essere determinante nella scelta finale.
Con ogni probabilità starà sotto i 10 mila euro. Ma la domanda è: quanto sotto? Da listino, la Tracer 7 e la NC750X (con cambio DCT) stanno a circa 8500 euro. E a inizio 2022 è previsto l’arrivo della CF Moto MT800, versione “cinese” della KTM 790ADV. Verrà commercializzata – forse – a circa 9000 mila euro, e monterà il bicilindrico LC8 della KTM, capace di erogare 91CV, contro i 76 della TRK. E nel mercato italiano, dove il numero dei cavalli è inversamente proporzionale all’autostima di chi guida il mezzo, sono numeri che contano.
Probabilmente la Benelli TRK 800 farà un grosso boom di vendite nel brevissimo periodo, dopo il lancio. Ma sul lungo si troverà ad affrontare una concorrenza preparata e presente, a differenza del mercato 500, dove ancora non ha rivali.
L’attesa dunque di altri sei mesi prima di vederla in concessionaria può essere logistica, ma anche strategica. Un modo per far aumentare l’hype intorno al prodotto, così che quel boom iniziale sia quanto più grande possibile, in grado di accecare la normalità che verrà poi.
CF Moto: a proposito di cinesi
Per molti la Benelli continuerà a essere una cinesata, ma come già detto dal sempre attento Nicola Andreetto, occhio a chiamarle tutte così. Credo che l’esempio più concreto sulle potenzialità di adattamento dell’industria cinese agli standard qualitativi occidentali la si possa osservare nel campo degli smartphone. Dieci anni fa, marchi come Huawei, Xiaomi, Honor, Oppo, OnePlus, erano anni luce lontani dagli standard di Apple, Nokia, Samsung e Sony. Oggi giocano alla pari. Anzi, i marchi cinesi sono tra le prime scelte degli acquirenti, non solo per questione di prezzo.
Certo, in campo motociclistico il fattore emozionale è più elevato rispetto a quello degli smartphone, e questo è legato a un dettaglio non secondario. Spesso si paragona l’arrivo dei cinesi a quello dei giapponesi. Ma quando questi ultimi arrivarono in Europa e in America, per citare ancora Andreeto, si conquistarono il rispetto sul campo, producendo moto in grado di scaldare il cuore degli appassionati di motorsport.
Dal 1961, anno in cui Tom Phillis vinse con la Honda nella classe 125, al 2021, anno in cui Fabio Quartararo ha vinto il motomondiale con la Yamaha, le quattro giapponesi hanno dominato le competizioni motociclistiche. Nella classe regina, terminata l’era Agosti-MV Agusta nel 1975, per vedere un’altra moto italiana vincente abbiamo atteso il 2007, e lì ci siamo fermati. Il resto, sono 46 anni di vittorie giapponesi.
Nel motocross, dal 1975, gli unici costruttori in grado di tenere testa ai giapponesi sono stati la KTM e l’Husqvarna. Tra il 1990 e il 2000, l’albo d’oro della classe 500 e 250 del MGPX è praticamente di dominio giapponese. Anche nella Rally Dakar, tolto il dominio KTM degli ultimi 18 anni, la seconda casa più vincente è la Yamaha, con 9 titoli.
Questo per dire che se c’è una cosa che ancora ai cinesi manca è la presenza diretta nelle competizioni. Elemento essenziale per far breccia nel cuore degli appassionati. La SR-C21 esposta nello stand CF Moto è certamente un ottimo esercizio di stile, ma oltre ciò non è andata.
Le competenze e il denaro ai cinesi non mancano. In passato poi non sono mancate le occasioni, sono stati ottenuti dei piccoli risultati, e proprio la CF Moto esordirà in Moto 3, sotto l’ala della KTM. Ma si tratta di risultati insignificanti per smuovere l’interesse di un pubblico generalista.
La domanda dunque è: i cinesi sono interessati a competere? O meglio: se non l’hanno fatto finora, che vantaggio avrebbero a investire nelle competizioni, oggi che il motore termico sembra destinato al tramonto?
Se l’elettrificazione del settore automotive vedrà la Cina come primo produttore mondiale, nulla vieta che quando la Moto E soppianterà la Moto GP (perché non è questione di sé, ma di quando), in pista a far la voce grossa saranno i marchi cinesi.
Dal canto nostro, possiamo indignarci a morte davanti alla scelta della Ducati di entrare nella moto E. Oppure possiamo farci grandi risate trovando divertentissimi vezzeggiativi per le moto elettriche. Ma la verità è che essere presente, sviluppare il know-how necessario alla transizione, è la scelta che può far la differenza, per un marchio, tra sopravvivere nel mercato o perire. L’invasione di moto endotermiche, cloni estetici dei blasonati modelli europei, possono essere solo un cavallo di troia per posizionarsi in un mercato esclusivo. Si tratta di una partita a scacchi dove lo scacco matto avverrà in un orizzonte temporale che molti motociclisti di oggi non vedranno.
In conclusione
Le moto elettriche non saranno mai come le moto a benzina, questo è un dato di fatto. Ma non lo saranno mai per quei motociclisti cresciuti negli anni Novanta, attorno alla cui figura gran parte delle case motociclistiche sta oggi costruendo i suoi modelli. Mezzi nostalgici nella concezione, fatti con la minima spesa per la massima resa, perfetti per soddisfare le esigenze di un cliente già fidelizzato e non interessato, in termini di consumo e mercato, a ciò che il futuro porterà. Ed EICMA è stato in gran parte la messa in scena di tutto questo.
La vera scommessa sarà però vedere come le case motociclistiche intercetteranno il potenziale motociclista di domani. Quello nato non più di dieci o quindici anni fa, che sta crescendo in un mondo con consapevolezza, gusto, sensibilità e necessità radicalmente diversi rispetto al motociclista nato trenta o quarant’anni fa. Cosa bolle nella pentola dei comparti R&D dei principali produttori mondiali, a EICMA, si è visto poco. E questo è stato un gran peccato.